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“Poco noto ad altrui, poco a me stesso: / Gli uomini e gli anni mi diran chi sono”». Questa la chiave del libro, due versi tratti dal giovanile autoritratto del 1801, di Alessandro Manzoni, la cui immagine biografica viene evocata virtualmente, senza essere propriamente raccontata, ma trasposta in altra figura e personaggio, l’Evaristo Tirinnanzi, enigmatico amministratore della casa Beccaria, bizzarro nella fisionomia e nel suo stesso destino. Il capitolo V, dedicato alle rivelazioni, contiene i codici della doppia vita, e le rivelazioni si scoprono dagli indizi di frasi poetiche. Certe nevrosi e angosce di copertura, interdizioni, balbuzie, smarrimenti agorafobici, sembrano appartenere in uguale misura, allo strano ragioniere di Casa Beccaria e al grandissimo scrittore.
Il romanzo di Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso, con eleganza e affabilità narrativa, sa celare nel fondo una rara complessità di saperi storici e letterari.
È un romanzo storico ma anche qualcosa di più: un esercizio di virtuosa regressione al passato, nell’estate del luglio 1841, nella Milano di Giulia Beccaria, la charmante Julie, figlia di Teresa de Blasco, e di Cesare, il sommo giureconsulto dei Delitti e delle pene. Non ultima corona dei suoi allori, madre di Alessandro Manzoni. Nella storia, non nel romanzo. Il segreto, sempre alluso del libro, è proprio l’Alessandro figlio naturale di Giovanni Verri, sua l’ombra dominante, il respiro nascosto, il costante riflesso nella trama di parole, di accenti, di echi, di misteriose citazioni.
L’altro tema sta nel binomio, pur sempre attuale, scienza/magia, e nel suo labile confine incarnato dalla figura di Franz Anton Mesmer (1734-1815), nato in una contrada tedesca, medico e filosofo del magnetismo, qui fatto rivivere in un presunto discepolo: l’avventuriero, charmant, dotatissimo di ogni maschera e infingimento, il sedicente barone Jean-Louis-Aurélien de Cerclefleury. Ma la sua finzione sarà decifrata (dal Cavaliere di Rivabella e da Giulio Beccaria) e l’inganno cadrà, mettendolo in fuga. Giulia, morendo, abbraccerà riconoscendolo in Tirinnanzi il figlio abbandonato alla nascita. E Manzoni? Non c’è, ma è come se ci fosse.
I nuclei del romanzo sono più d’uno: il primo ruota dentro e intorno il salotto Beccaria, con tutto quello che significa come cultura, stile, tradizione, religione civica. L’altro è nella suburra milanese di Aristide Faggini. Un superbo ritratto d’epoca, un coltissimo divertissement, un dagherrotipo di parole, colori, atmosfere, scattato tra i palazzi patrizi e i Navigli plebei di una Milano amorosamente ricostruita a pennellate di stile.